Donne: nemiche amiche

Tavolata di vecchie amiche, tutte in odor di quaranta.  Su quattro, io sono l’unica con figli. Tra le chiacchiere in rosa su amicizia, famiglia, relazioni, emerge una nota comune tra quelle senza figli: la convinzione di essere in qualche modo discriminate “dalle altre” perché ancora single o solo in coppia.

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La mamma che si finisce di sposare

angela_cavagna

 

Da che ho memoria, nella mia famiglia e in quelle di amici e conoscenti, la donna – soprattutto da una certa età in poi – ha sempre assunto volontariamente il ruolo della zelante crocerossina, eroica paladina delle ferree regole contro cibi grassi, colesterolo ed eccessi alcolici, a perenne preservazione salutistica dell’amato congiunto.

Mia nonna controllava in modo maniacale che mio nonno prendesse le medicine agli orari prestabiliti, e la frase “hai preso la pillola?” è diventata un refrain dai contorni tragicomici.

Mia madre fa lo stesso con mio padre ma con tecnica più affinata, lasciando appesi per casa fogli A4 con scritte minatorie tipo: “hai preso la pillola delle 17?”.

La storia è destinata a ripetersi anche in casa mia.

Da qualche mese – a causa di sopraggiunti problemi di vista a cavallo del temibile giro di boa dei quaranta – mio marito è in contatto con svariati oculisti sia nel pubblico che nel privato, ma senza nessuna concreta strategia su come affrontare l’inevitabile operazione.

Le settimane passano e lui, serafico come un monaco buddista, mi spiega che è una “questione di accettazione”, che non si può rincorrere “un ideale di salute perfetta che non esiste”.

Lui è convinto che aspettare la visita in ospedale, programmata fra un mese, sia la scelta migliore, e una persona di buon senso, in fondo, dovrebbe rispettare la decisione consapevole di un uomo maturo. 

Il problema tuttavia è che le donne sono convinte di sapere sempre quel che è meglio per i loro mariti…anche se questo si traduce nello scoprire di essersi trasformate nelle proprie madri o peggio, nelle proprie nonne.

Mi piacerebbe poter dire che assomiglio a Angela Cavagna infermiera bollente del Drive in, ma temo che l’abbinamento più appropriato sia con la Kathy Bathes di Misery non deve morire.

Osservando gli spostamenti e le chiamate di mio marito, lo inseguo con una serie interminabile di “Hai chiamato l’ospedale?” o “Chiedi per un’impegnativa urgente!” oppure “Contatta un altro medico privato e subito!” al delirante “Ah, giusto, non ci avevo pensato…sentiamo mia sorella che si è fatta correggere la vista”.

Ma in fondo, non è così innaturale per noi donne prendersi cura della persona che amiamo, sia questo il cane (è sempre la mamma che finisce per portarlo a passeggio quando dopo un paio di mesi i figli si stufano del cucciolo), un marito o i figli cinquantenni.

La patologia è genetica e i sintomi sono chiari sin da subito.

Una bambina di fronte a un neonato ha uno sguardo tra il sognante e l’esaltato, inconsciamente pregusta già il momento quando sarà lei ad averne uno tutto suo. Le mie figlie simulano da sempre gravidanze con peluche e la cura che mettono nell’accudire le bambole è una chiara anteprima per gli anni a venire…futuri mariti avvisati.

Soffriamo più degli uomini, per questo siamo snervanti, ossessive, manipolatrici; ma in fondo questo, loro, lo sanno meglio di chiunque altro, quando decidono di sposare la versione moderna delle loro madri.

Donne & outlet

outlet

Gli outlet mi incutono da sempre, a livello inconscio, un certo timore, è per questo che non ci vado mai.

Sarà per via delle luci al neon che avvolgono la cornice scenica in una bolla asettica, delle persone affamate di trovare l’affare d’oro, degli odori della folla che si mescolano in un unico grande puzzo di minestrone (specialmente in inverno) o semplicemente il fatto che non amo fare shopping.

Sabato mattina però, in barba ai miei buonissimi propositi di schivare ancora una volta la richiesta di mia sorella – maga ed esperta degli outlet in tutta Italia – sono partita alla volta di Bologna per visitarne uno dove avrei potuto trovare un cappotto firmato a prezzo stracciato, naturalmente delle collezioni passate, ma siccome le mie conoscenze ignorano anche le nuove, il rischio di venire ‘smascherata’ era praticamente nullo.

La formazione di partenza era composta da quattro donne, due delle quali poco avvezze allo shopping chiccoso.

Dopo un’ora di guida, varchiamo l’ingresso ed immediatamente ci disperdiamo senza neanche un accenno, tra i corridoi ben ordinati e divisi per capo e taglia.

Per circa dieci minuti non rivedo nessuno, ognuna inghiottita dalla febbre dell’acquisto.

Questa è la prima lezione dell’outlet: anche la donna più restia alle compere, in posti di perdizione come questo, diventa una peccatrice indemoniata, e riposta con cura la borsetta in un luogo sicuro, inizia la sonata tra le grucce con dita agili ed esperte come se l’avesse fatto da sempre.

Mia madre è una trasformista da circo. Un secondo ed entra nel camerino con un cappotto firmato, l’attimo dopo sta provando un abito, mezzo secondo dopo ne esce con una giacca a vento. Sono quasi certa che potrebbe avere un buon successo nella famiglia Orfei. Con occhio pallato e pupilla dilatata, supplichevole, cerca il nostro sguardo di approvazione per sistemare il capo nella sacca degli acquisti.

Mia sorella però, la personal shopper di famiglia – guru incontrastata del buon gusto per tutti i prezzi – non mostra pietà filiare e la stronca più volte con un minimo cenno del capo oppure platealmente con un”ti fa la vita larga”. E con la stessa brevità, gira i tacchi verso gli abiti taglia 42. D’altronde, una personal shopper non deve avere misericorida, ma far uscire la propria cliente con gli acquisti migliori per il suo fisico e le sue tasche.

L’amica di mia sorella, con la quale prima di entrare si era detto a denti stretti, senza farci sentire dalle altre “cerchiamo di stare qui dentro al massimo un’ora”, gira con una borsa stracolma di roba, sta comprando anche per la madre e la sorella e non mostra segni di cedimento. Quando avverto le prime avvisaglie di noia, cerco un suo sguardo di complicità, ma lei si è tuffata tra le borse di pelle e capisco che anche lei, è stata ammorbata senza scampo dalla febbre dell’outlet.

Dopo aver provato tre cappotti, opto per uno in stile Anna Karenina e visto che il tempo totale dell’acquisto è stato di circa sette minuti e mezzo, provo a ravanare nelle maglie a otto euro provandone qualcuna. Dopo venti minuti ho pagato e comincio a vagare senza meta per il negozio.

In giro sono quasi tutte donne, i pochi uomini tengono il cagnolino al guinzaglio da una mano e la borsa della moglie dall’altra. Sono appoggiati alle colonne in riverente silenzio, guadano in basso per non interferire, hanno l’espressione rassegnata e sanno che potrebbero stare lì per molto tempo ancora.

Dopo circa tre quarti d’ora, capisco un’altra cosa: è fisiologico e prima poi arriva per tutti che dopo un certo periodo di tempo, si cominci a gironzolare privi di meta alzando meccanicamente il braccio per sfogliare distrattamente i capi.

Il che mi porta ad un’altra, importantissima lezione: andare sempre soli all’outlet, al massimo col valletto di compagnia che ad un cenno, fila via veloce come il vento.

Ma soprattutto, comprendo nel profondo l’insegnamento più importante: mai dire mai.

E temo, nell’intimo, che potrei rimettere ancora piede in questo posto di dannazione.

I finti moralisti e Miley Cirus

miley cirus

Da alcuni giorni tiene banco in America – ma pure oltreoceano l’interesse non è da meno – un dibattito che sulle prime pensavo sarebbe scemato con la solita scrollatina di spalle.

Fonte della discussione è la controversa performance della cantante-attrice Miley Cirus sul palco degli Mtv Video Music Awards dove ha cantato e ballato discinta, con movenze e strusciamenti presi in prestito dal mondo hip-hop; ostentando un repertorio per altro già visto da altre prima di lei, vedi Madonna, Britney Spears o Cristina Aguilera, solo per citarne alcune.

Le femministe sono insorte avviando il dibattito se quel tipo di spettacolo non degradi l’immagine della donna – ma a quel punto bisognerebbe ritirare dal mercato praticamente tutti i video dance e hip-hop in circolazione – e se così comportandosi si possa realmente parlare di liberazione/emancipazione femminile.

Altri ancora hanno gridato allo scandalo parlando di furto artistico dal mondo dell’hip-hop, retaggio prettamente della cultura nera, e questo ha aperto un nuovo dibattito, ancor più ampio sulla tematica razziale in America.

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Uomini umanamente emancipati

donne felici

Quando S. è rimasta incinta, il tipo di contratto che la legava al teatro in cui lavorava, non le permetteva di ritornare al suo posto di lavoro subito dopo la maternità. Così per cinque anni è rimasta a casa ad accudire i due figli piccoli.

Nel frattempo, piccole cose sono cambiate nel teatro (ad esempio la sperimentazione di periodi limitati di part-time) e da settembre tornerà al lavoro con un contratto di due mesi.

S.è al settimo cielo!

Come solo una donna che ogni giorno, per trecentosessantacinque giorni all’anno, moltiplicati per cinque, ha provato l’esperienza (splendida o soffocante, la valutazione è altamente soggettiva) di restare a casa e pianificare, quasi unicamente – e su per giù in questo ordine – di: pulire, fare la spesa, preparare il pranzo, fare un giretto al parco giochi, mettere a letto i figli, preparare la cena; vivendo in una bolla di ermetico isolamento.

Anche suo marito è felice per lei.

E non solo per le ovvie ragioni economiche, ma perchè ha capito –  osservandola nei lunghi mesi, ferma, sulla porta di casa – che racchiudere la vita unicamente intorno alla cura dei figli, per molte donne di oggi può non essere sufficiente.

“Potrà avere nuovi stimoli, parlare con adulti e scambiare idee, magari ricevere i complimenti di qualche altro uomo”.

Quanto vere suonavano quelle parole!

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