Mia sorella per Natale ha regalato alle bambine Twister.
Subito, soprattutto la grande, hanno storto il naso; non si trattava di principesse, bamboline, barbie, giochi rosa o luccicanti. Non capivano bene cosa potesse esserci d’interessante dentro quella scatola a cerchi colorati.
Un mattino, ho aperto la confezione, letto le istruzioni in una manciata di minuti – non ci vuole un ingegnere per imparare Twister – e l’ho spiegato alle bimbe.
Boom. Il livello di interesse è schizzato alle stelle, forse per via della prospettiva di contorsioni, divaricazioni, e follie fisiche.
Comunico ai contendenti che probabilmente mi incrinerei una vertebra anche se fossi in condizioni normali, ma con pancione e gravi limiti di mobilità, rischio di spezzarmi in due e dover poi chiamare l’impresa edile per tirarmi su con la gru.
Mi limiterò a guardare gli altri tre partecipanti.
Julia, la grande, comincia ma si vede subito che le mosse sul grande tappetone sono più complicate di quello che si aspettava. Ha i piedi sudaticci e mentre tenta di mantenere stoicamente una posizione francamente impossibile – nella quale io avrei potuto restarci secca – ha i muscoli che tremano.
A me la scena pare di un’ilarità incontenibile.
A lei, un po’ meno.
Pochi secondI dopo, cade a terra emettendo il suo ruggito di frustrazione (potrei riconoscere quell’urlo tra mille, ha il mio marchio, è quello che faccio io quando mi indiavolo su oggetti inanimati che non vogliono collaborare).
E poi esclama, teatrale: “questo gioco è bruttissimo, io non ci gioco più”.
E corre via piangente.
Inutile dire che, sdraiata sulla poltrona come un pachiderma in relax, non riesco a trattenere il divertimento, piango addirittura. La drammaticità di mia figlia è così travolgente che rischio di soffocare.
“Dai vieni a giocare!”. Insisto qualche volta.
“Lo so perché non vuoi giocare, tu. Perché non vuoi perdere!”.
Perspicace la ragazza. Ma anche ignara del fatto che già salendo i 13 scalini di casa mia annaspo, figuriamoci a stare in posizioni asana per colpa di uno stupido gioco americano.
Si convince di tornare, la primadonna. Ma a una condizione: “Gioco solo se giochi anche TU. E se cadi, riderò IO”.
Piccole iene crescono…
Scendo in campo con maglia XXL dei St. Louis Cardinals, praticamente la mia uniforme in casa – sembro Pavarotti ma senza il fiorato – e braghe scooby doo. Inutile dire che sono regali from U.s.A.
Un paio di mosse e cade lei. Quella dopo, cado io. Mi accascio a terra e rido, lei lo prende come un insulto e se ne va un’altra volta.
La partita a quattro finisce.
Loro invece, decidono di continuare. Giocare in due è molto meglio che farlo coi due anziani genitori.